CANTO E LITURGIA

Il pensiero di Joseph Ratzinger

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Il fondamento teologico del canto liturgico

Da Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 132-134.

Quale importanza ha la musica per la religione della Bibbia lo si può dedurre facilmente dal fatto che la parola «cantare» (insieme con i suoi derivati) è una delle parole più usate della Bibbia: nell’Antico Testamento il termine ricorre 309 volte, nel Nuovo Testamento 36 volte.

Dove Dio entra in contatto con l’uomo, la semplice parola non basta più. Vengono toccati punti dell’esistenza che diventano spontaneamente canto: ciò che è proprio dell’uomo non basta più per ciò che egli deve esprimere, tanto che egli invita tutta la creazione a divenire canto insieme con lui: «Svegliati mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora. Ti loderò tra i popoli, Signore, a te canterò inni tra le genti, perché la tua bontà è grande fino ai cieli, e la tua fedeltà fino alle nubi» (Sal 57,9- 11). La prima menzione del canto si trova, nella Bibbia, dopo il passaggio del mar Rosso. Ora Israele è definitivamente liberato dalla servitù, ha sperimentato in maniera travolgente la potenza salvatrice di Dio in una situazione disperata. Come Mosè da bambino fu salvato dalle acque del Nilo e proprio in questo modo ricevette realmente la vita, così Israele si sente a sua volta salvato dalle acque, libero, donato nuovamente a se stesso dalla potente mano di Dio. La reazione del popolo all’evento fondamentale della salvezza nel racconto biblico è descritta con questa espressione: «Essi credettero al Signore e a Mosè, suo servo» (Es 14,31). Segue però una seconda reazione, che si leva dalla prima con impeto elementare: «Allora Mosè cantò con gli Israeliti questo canto al Signore…» (15,1). Nella celebrazione della notte pasquale i cristiani di anno in anno intonano questo inno, lo cantano di nuovo come loro inno, perché anch’essi si sanno «tratti dall’acqua» mediante la potenza di Dio, liberati da Dio per la vita vera. L’Apocalisse di Giovanni allarga ancora di più questo arco. Dopo che gli ultimi nemici del popolo di Dio sono entrati sulla scena della storia – la trinità satanica, consistente nella bestia, nella sua statua e nel numero del suo nome – quando, cioè, tutto sembra ormai perduto per il santo Israele di Dio davanti a un tale strapotere, al veggente è donata la visione del vincitore: «…stavano ritti sul mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell’Agnello…» (Ap 15,2s). Il paradosso di allora si fa ancora più possente: non vincono le gigantesche bestie feroci, con il loro potere mediático e la loro capacità tecnica; vince l’Agnello sacrificato. E così risuona ancora una volta, definitivamente, il canto del servo di Dio Mosè, che ora diventa il canto dell’Agnello.

Il canto liturgico si colloca nel quadro di questa grande tensione storica. Per Israele l’evento di salvezza accaduto presso il mare delle Canne restò sempre il motivo portante della lode di Dio, il tema fondamentale del suo canto davanti a Dio. Per i cristiani la resurrezione di Cristo, che aveva superato il «Mar Rosso» della morte, era disceso nel mondo delle tenebre e aveva sfondato le porte del carcere, era il vero esodo, che nel battesimo si faceva nuova presenza: il battesimo è un essere presi nella contemporaneità della discesa di Cristo agli inferi e della sua ascesa, in cui Egli ci accoglie nella comunione della nuova vita. Già il giorno successivo alla gioia dell’Esodo, gli Israeliti dovettero accorgersi di essere esposti al deserto e ai suoi pericoli e che la marcia verso la Terra Promessa non aveva posto fine alle minacce. Ma c’erano le gesta sempre nuove di Dio, che permettevano di continuare a cantare il cantico di Mosè e mostravano che Dio non è un Dio del passato, ma del presente e del futuro. Certamente, in ogni nuovo canto c’era anche la consapevolezza della provvisorietà e l’esigenza di un canto nuovo e definitivo, l’esigenza di una salvezza non più seguita da alcun istante di paura, ma solo dall’inno di lode. Chi credeva alla resurrezione di Cristo, conosceva davvero la salvezza definitiva e sapeva che i cristiani, che si trovavano ora nella «nuova alleanza», cantavano ora il canto nuovo, che era definitivo e realmente «nuovo» per il totalmente altro che era accaduto con la resurrezione di Cristo. Quello che abbiamo detto nella prima parte sulla fase intermedia della realtà cristiana – non più ombra, ma neppure realtà piena, bensì «immagine» – continua a valere anche qui: il nuovo canto definitivo è intonato, ma bisogna che si compiano tutte le sofferenze della storia, che tutto il dolore sia raccolto e consegnato nel sacrificio della lode, per esservi trasformato nel canto di lode.

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La musica ecclesiale come dono dello Spirito

Da Introduzione allo spirito della liturgia, p. 136.

Se Israele, nel suo canone, aveva per lo più attribuito i salmi al re Davide, dandone una certa interpretazione storico-salvifica e teologica, per i cristiani è chiaro che Cristo è il vero Davide, che Davide nello Spirito Santo prega in e con Colui che doveva essere suo figlio e, insieme, Figlio Unigenito di Dio.

Con questa chiave interpretativa i cristiani si inserirono nella preghiera di Israele, sapendo che proprio in questo modo essi la facevano diventare il canto nuovo. Notiamo che così facendo veniva data un’interpretazione trinitaria dei salmi: lo Spirito Santo, che aveva ispirato Davide a cantare e a pregare, fa sì che egli parli di Cristo, ne diventi, anzi, la voce. Per questo nei salmi noi parliamo per mezzo di Cristo, al Padre, nello Spirito Santo. Questa interpretazione pneumatologica e cristologica dei salmi non riguarda solo il testo, ma include l’elemento musicale: è lo Spirito Santo che insegna a cantare a Davide e, attraverso di lui, a Israele e alla Chiesa. Il cantare, proprio perché supera il modo usuale di parlare, è come tale un evento pneumatico. La musica ecclesiale sorge come «carisma», come dono dello Spirito: essa è la vera «glossolalia», la nuova «lingua» che proviene dallo Spirito. In essa soprattutto accade la «sobria ebbrezza» della fede, perché sono superate tutte le possibilità della pura razionalità. Ma questa ebbrezza resta sobria perché Cristo e lo Spirito sono una cosa sola, perché questa lingua «ebbra» resta comunque interamente nella disciplina del Logos, in una nuova razionalità che, al di là di tutte le parole, serve alla parola originaria, che è il fondamento di ogni ragione.

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Canto d’amore per il Signore: “Cantare amantis est”

Da Introduzione allo spirito della liturgia, p. 136- 138.

Avevamo già trovato nell’Apocalisse l’ampliamento di orizzonte donato con la confessione di fede in Cristo, là, dove il canto dei vincitori viene chiamato il canto di Mosè, servo di Dio, e dell’Agnello. Con ciò veniva sottolineata un’altra dimensione del canto davanti a Dio.

Nella Bibbia di Israele abbiamo constatato finora due motivi fondamentali per cantare davanti a Dio: la situazione di bisogno e la gioia, la tribolazione e la salvezza. Il rapporto con Dio era caratterizzato in maniera troppo forte dal timore della potenza eterna del Creatore perché si osasse considerare i canti per il Signore come dei canti d’amore per Lui, sebbene nella fiducia, che caratterizza interiormente tutti i testi, ultimamente si cela proprio l’amore – ma esso rimane timido, per l’appunto, nascosto. La strettissima connessione di amore e canto entra per la prima volta nell’Antico Testamento in una maniera che in un primo momento può destare meraviglia, ovvero con l’ingresso del Cantico dei Cantici che, di per sé, era una raccolta di poesie d’amore umane. Quando, però, esso venne accolto nel canone, si tenne già conto di una interpretazione piuttosto estensiva. Si poteva intendere questo bellissimo poema d’amore di Israele come parole ispirate della Sacra Scrittura perché si era persuasi che nell’amore umano che vi veniva cantato traspariva il mistero d’amore di Dio con Israele. Nella lingua dei profeti il culto degli dei stranieri veniva definito come prostituzione (cosa che aveva un senso del tutto concreto, dal momento che i culti di fecondità facevano normalmente parte dei riti di fecondità, la pratica della prostituzione presso i templi). Al contrario l’elezione di Israele appare come la storia d’amore di Dio con il suo popolo. L’alleanza viene interpretata nell’immagine del fidanzamento e del matrimonio come legame dell’amore di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. L’amore umano poteva così diventare immagine reale dell’agire di Dio con Israele. Gesù aveva fatta sua questa linea della tradizione di Israele, tanto che in una delle sue prime parabole parla di sé come dello Sposo. Alla domanda perché i suoi discepoli, al contrario dei discepoli di Giovanni e di quelli dei farisei, non digiunavano, egli aveva risposto: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno» (Mc 2,19s). Questa è una profezia della passione, ma anche l’annuncio delle nozze, che poi compare ancora nelle parabole di Gesù incentrate sul banchetto nuziale, divenendo il tema centrale nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, quello dell’Apocalisse: attraverso la passione tutto si dirige alle nozze dell’Agnello. Dato che nelle visioni della liturgia celeste esse paiono sempre anticipate, i cristiani compresero che l’eucaristia è presenza dello sposo e, proprio per questo, anticipazione della festa nuziale di Dio. In essa accade quella comunione che ha il suo corrispondente nell’unione di uomo e donna nel matrimonio: come essi diventano «una sola carne», così noi tutti diventiamo nella comunione uno «spirito», un’unità con Lui. Il mistero nuziale dell’unione di Dio e uomo preannunciato nell’Antico Testamento accade nel sacramento del corpo e del sangue di Cristo, proprio attraverso la sua passione, in maniera del tutto reale (cfr. Ef 5,29-32; ICor 6,17; Gal 3,28). Il canto della Chiesa proviene ultimamente dall’amore: è esso che, in profondità, sta all’origine del cantare. «Cantare amantis est», dice Agostino: cantare è proprio dell’amore. Con ciò siamo di nuovo all’interpretazione trinitaria della musica ecclesiastica: lo Spirito Santo è l’amore, ed è Lui all’origine del canto. Egli è lo Spirito di Cristo, Egli ci attira nell’amore per Cristo e ci conduce così verso il Padre.

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La musica liturgica cristiana e il Logos

Da Introduzione allo spirito della liturgia, p. 145- 146.

[La musica liturgica cristiana] si riferisce agli avvenimenti con cui Dio è intervenuto nella storia, testimoniati dalla Bibbia e resi presenti nel culto. Essi proseguono nella storia della Chiesa, ma hanno il loro centro immutabile nella Pasqua di Gesù Cristo: la croce, la resurrezione e l’ascensione.

Questo intervento storico di Dio riassume in sé anche gli eventi salvifici dell’Antico Testamento così come le esperienze di salvezza e le speranze della storia delle religioni, li interpreta e li conduce alla loro pienezza. Nella musica liturgica, che si fonda sulla fede biblica, c’è quindi un chiaro dominio della parola; essa è una modalità più elevata di annuncio. Proviene ultimamente dall’amore, che risponde all’amore di Dio divenuto carne in Cristo, a quell’amore che per noi è giunto fino alla morte. Poiché anche dopo la resurrezione la croce non è affatto un evento del passato, questo amore resta sempre caratterizzato dal dolore per il nascondimento di Dio, dal grido che sale dal profondo del bisogno – Kyrie eleison – mediante la speranza e la preghiera. Ma, poiché questo amore può comunque sperimentare in anticipo la resurrezione come verità, implica anche la gioia del sentirsi amati – quella letizia da cui Haydn diceva di sentirsi travolto quando metteva in musica dei testi liturgici. Riferimento al Logos significa anzitutto riferimento alla parola. È da qui che deriva nella liturgia la preminenza del canto sulla musica strumentale (che, comunque, non deve essere esclusa). A partire da qui si comprende che i testi biblici e liturgici sono le parole di riferimento, quelle che danno i criteri a cui deve orientarsi la musica liturgica, cosa che non si oppone affatto alla creazione di «nuovi inni», ma che li ispira e li rende certi del fondamento e della affidabilità del sapersi amati da Dio, vale a dire, della redenzione.

Paolo ci dice che noi, da soli, non sappiamo che cosa dobbiamo pregare, ma che lo Spirito intercede per noi «con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). La preghiera, in quanto tale, e, in modo particolare, il dono del canto e del suono che va oltre la parola, è dono dello Spirito, che è l’amore, che opera in noi l’amore e ci muove così al canto. Poiché però è lo Spirito di Cristo che «prende del Suo» (Gv 16,14), il dono che viene da Lui e che va oltre le parole è però sempre riferito alla parola, al senso che crea e sostiene la vita, Cristo. Le parole sono superate, ma non la Parola, il Logos; questa è la seconda e più profonda forma di riferimento al Logos della musica liturgica. È anche questo ciò a cui si pensa, quando nella tradizione ecclesiale si parla della sobria ebbrezza che lo Spirito Santo opera in noi. Resta comunque una sobrietà ultima, una più profonda razionalità, che si contrappone all’annegamento nell’irrazionale e nell’assenza di misura.

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Musica sacra e nuova evangelizzazione

Dal discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti all’incontro promosso dall’associazione Italiana Santa Cecilia, 10 novembre 2012.

Vorrei sottolineare brevemente come la musica sacra può, anzitutto, favorire la fede e, inoltre, cooperare alla nuova evangelizzazione. Circa la fede, viene spontaneo pensare alla vicenda personale di Sant’Agostino – uno dei grandi Padri della Chiesa, vissuto tra il IV e il V secolo dopo Cristo – alla cui conversione contribuì certamente e in modo rilevante l’ascolto del canto dei salmi e degli inni, nelle liturgie presiedute da Sant’Ambrogio.

Se infatti sempre la fede nasce dall’ascolto della Parola di Dio – un ascolto naturalmente non solo dei sensi, ma che dai sensi passa alla mente ed al cuore – non c’è dubbio che la musica e soprattutto il canto possono conferire alla recita dei salmi e dei cantici biblici maggiore forza comunicativa. Tra i carismi di Sant’Ambrogio vi era proprio quello di una spiccata sensibilità e capacità musicale, ed egli, una volta ordinato Vescovo di Milano, mise questo dono al servizio della fede e dell’evangelizzazione. La testimonianza di Agostino, che in quel tempo era professore a Milano e cercava Dio, cercava la fede, al riguardo è molto significativa. Nel decimo libro delle Confessioni, della sua Autobiografia, egli scrive: «Quando mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica» (33, 50). L’esperienza degli inni ambrosiani fu talmente forte, che Agostino li portò impressi nella memoria e li citò spesso nelle sue opere; anzi, scrisse un’opera proprio sulla musica, il De Musica. Egli afferma di non approvare, durante le liturgie cantate, la ricerca del mero piacere sensibile, ma riconosce che la musica e il canto ben fatti possono aiutare ad accogliere la Parola di Dio e a provare una salutare commozione. Questa testimonianza di Sant’Agostino ci aiuta a comprendere il fatto che la Costituzione Sacrosanctum Concilium, in linea con la tradizione della Chiesa, insegna che «il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne» (n. 112). Perché «necessaria ed integrante»? Non certo per motivi puramente estetici, in un senso superficiale, ma perché coopera, proprio per la sua bellezza, a nutrire ed esprimere la fede, e quindi alla gloria di Dio e alla santificazione dei fedeli, che sono il fine della musica sacra (cfr ibid.). Proprio per questo vorrei ringraziarvi per il prezioso servizio che prestate: la musica che eseguite non è un accessorio o solo un abbellimento esteriore della liturgia, ma è essa stessa liturgia. Voi aiutate l’intera Assemblea a lodare Dio, a far scendere nel profondo del cuore la sua Parola: con il canto voi pregate e fate pregare, e partecipate al canto e alla preghiera della liturgia che abbraccia l’intera creazione nel glorificare il Creatore.

Il secondo aspetto che propongo alla vostra riflessione è il rapporto tra il canto sacro e la nuova evangelizzazione. La Costituzione conciliare sulla liturgia ricorda l’importanza della musica sacra nella missione ad gentes ed esorta a valorizzare le tradizioni musicali dei popoli (cfr n. 119). Ma anche proprio nei Paesi di antica evangelizzazione, come l’Italia, la musica sacra – con la sua grande tradizione che è propria, che è cultura nostra, occidentale – può avere e di fatto ha un compito rilevante, per favorire la riscoperta di Dio, un rinnovato accostamento al messaggio cristiano e ai misteri della fede. Pensiamo alla celebre esperienza di Paul Claudel, poeta francese, che si convertì ascoltando il canto del Magnificat durante i Vespri di Natale nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi: «In quel momento – egli scrive – capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla». Ma, senza scomodare personaggi illustri, pensiamo a quante persone sono state toccate nel profondo dell’animo ascoltando musica sacra; e ancora di più a quanti si sono sentiti nuovamente attirati verso Dio dalla bellezza della musica liturgica come Claudel. E qui, cari amici, voi avete un ruolo importante: impegnatevi a migliorare la qualità del canto liturgico, senza aver timore di recuperare e valorizzare la grande tradizione musicale della Chiesa, che nel gregoriano e nella polifonia ha due delle espressioni più alte, come afferma lo stesso Vaticano II (cfr Sacrosanctum Concilium, 116). E vorrei sottolineare che la partecipazione attiva dell’intero Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, e questo vale anche per la musica sacra. Voi, che avete il dono del canto, potete far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche.

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Che cos’è la musica?

Dalle parole di ringraziamento di Benedetto XVI, Papa emerito, in occasione del conferimento del dottorato “honoris causa” da parte della Pontificia Università “Giovanni Paolo II” di Cracovia e dell’Accademia di Musica di Cracovia (Polonia), 4 luglio 2015.

È giusto porre la domanda di fondo: Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende? Penso si possano localizzare tre “luoghi” da cui scaturisce la musica.

Una sua prima scaturigine è l’esperienza dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo. La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione della vita.

Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’essere toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi.

Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi. Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti – l’amore e la morte – il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica. Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti: viene risvegliata la musica nascosta della creazione, il suo linguaggio misterioso. Con il Salterio, nel quale operano anche i due motivi dell’amore e della morte, ci troviamo direttamente all’origine della musica sacra della Chiesa di Dio. Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quest’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa.

A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun’altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e Bruckner. La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture. E questo – mi sembra – ci deve far pensare.

Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua origine più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Cristo Gesù. Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto un incontro con la verità, con il vero creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è chiaro però anche che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede.

Se pensiamo alla liturgia celebrata da san Giovanni Paolo II in ogni continente, vediamo tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico; e vediamo anche come la grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa e in questo modo contribuisca sempre di nuovo a darle forma. Non conosciamo il futuro della nostra cultura e della musica sacra. Ma una cosa è mi sembra chiara: dove realmente avviene l’incontro con il Dio vivente che in Cristo viene verso di noi, lì nasce e cresce nuovamente anche la risposta, la cui bellezza viene dalla verità stessa.

CORO SAN PROSDOCIMO

CAPPELLA MUSICALE
della Cattedrale di Padova

Basilica di Santa Maria Assunta nella Cattedrale

Via Dietro Duomo 5,
34139 Padova